Fra gli elementi di merito della faticosa riforma del Terzo Settore vanno riconosciuti l’aver definito l’identità di una pluralità di soggetti che popolano lo spazio fra Stato e Mercato e l’aver colto l’urgenza di accompagnare la trasformazione in atto, nei grandi cluster che compongono l’eterogeneo mondo del “not for profit”. Un aggregato molto significativo (343 mila organizzazioni) che si offre alla collettività non solo come infrastruttura sociale capace di generare beni relazionali e capitale sociale, ma anche come imponente esercito di persone (quasi 6 milioni i volontari) mosse da motivazioni pro-sociali capaci di garantire servizi di cura, assistenza e inclusione. A tutto ciò va aggiunto il valore economico apportato dalla cooperazione sociale che in Italia garantisce servizi a oltre 7 milioni di persone e il peso delle Fondazioni (cresciute del 16% in termini di occupati) sempre più impegnate a “orchestrare” reti oltre che ad erogare risorse. Insomma, la fotografia del Terzo Settore oggi ci restituisce un quadro profondamente cambiato, tanto nella sua funzione produttiva (sempre più orientata al Mercato e alla contaminazione con il for profit), quanto in quella donativa, dove il nuovo volontariato sta assumendo forme inedite e spesso distanti dai tradizionali contenitori associativi. Una transizione che va accompagnata e che necessita di un ecosistema abilitante composto da attori coscienti dell’evoluzione in atto nel mondo del sociale. Evidenze e segni della ri-composizione di un nuovo ecosistema sono visibili nella crescita esponenziale di nuovi servizi e prodotti offerti dagli istituti di credito per il mondo non profit (non più considerato un ambito residuale e marginale, ma strategico) nell’interesse di nuovi investitori verso progetti orientati a promuovere soluzioni di welfare comunitario, per non parlare delle incursioni, ormai vissute come indispensabili dal non profit, di nuovi professionisti con competenze digitali o legate al design dei servizi o alla gestione di governance progettuale. Una complessità che vede l’azione del volontariato dilatarsi in ambiti prima inattesi come quelli della rigenerazione, dell’innovazione sociale e dell’amministrazione condivisa; un volontariato che la riforma riconosce non solo nel suo alveo naturale, ossia l’associazionismo, ma anche in tutte le diverse tipologie del Terzo Settore (anche nelle imprese sociali di capitale). Un volontariato che nasce negli “interstizi” di nuove forme di mutualismo e che trova il suo terreno più fertile in nuove forme di condivisione spesso abilitate da luoghi “digitali” come le piattaforme tecnologiche. Un’offerta, quella del mondo del Terzo Settore, che è destinata a ridefinirsi continuamente nel tempo, in particolare in quei settori ad alta intensità associativa come la cultura e lo sport (ambiti in cui si concentra oltre il 63% delle ONP) diventati contenitori di attività in cui advocacy, educazione e dimensione commerciale alimentano nei soci, nei volontari e nei beneficiari bisogni nuovi fino ad oggi non registrati. Bisogni che stanno spingendo tutti gli “attori” in campo a prendersi il rischio di innovare i propri modelli di relazione al fine di supportare il Terzo Settore non solo nel “fare il bene”, ma anche, come diceva Diderot, “nel farlo bene”.
Roberto Paoletti