Uno degli slogan preferiti di Jeff Bezos recita: “È più facile inventare il futuro che prevederlo”.
Da quasi un anno viviamo in un prolungato stato di emergenza con due dinamiche. Una porzione del Terzo Settore si è trovata in prima linea, con costi operativi, difficoltà finanziarie e modelli di intervento in alcuni casi inefficienti perché appunto realizzati in condizioni di emergenza. Un’altra parte, invece, è rimasta ferma, forzatamente, e ha riscontrato gravi mancanze sul fronte di ricavi ed entrate, a cui si è sommata la crisi delle entrate filantropiche polarizzate sulla sanità. Si è visto così come una parte di Terzo Settore – soprattutto imprenditoriale – ha tardato un po’ troppo l’appuntamento con le tecnologie, con la managerializzazione, con la strutturazione finanziaria, con quelle operazioni di irrobustimento e investimento che forse gli avrebbero consentito di rispondere in maniera più strutturale, consistente e “scalabile” alle sfide. Perché questo ritardo che ha impedito un passaggio maturo nell’investimento e nell’uso della tecnologia e del digitale per gli enti di Terzo Settore? Alcune cause sono afferenti al mondo del risk o change management: avversione al rischio, ritrosia al nuovo, perpetuazione nello status quo. E qui nessuno è escluso.
Il cuore della trasformazione digitale si gioca proprio qui: se l’utilità della tecnologia è assodata, il percorso che porta un’organizzazione a creare valore e fare la differenza attraverso di essa è da scoprire nel proprio contesto con grande umiltà, resilienza, motivazione. Serve uno switch mentale e considerare il digitale come la dimensione strategica entro cui si configura sia l’erogazione di servizi, sia l’assetto organizzativo di ciascun ente di Terzo Settore. Come si fa questo passaggio? Fondamentale è individuare un’unità minima di lavoro interna (digital transformation task force) che sperimenti nuove modalità di utilizzo della tecnologia e del digitale a servizio dell’organizzazione. Il beneficio è presto visto: essa amplifica la rapidità del cambiamento nonché, potenzialmente, l’impatto sociale dell’organizzazione stessa. Occorre formazione (alta, di qualità) su hard e soft skills di ciascun collaboratore, ma anche una sana contaminazione con l’esterno. Serve insomma un’operazione di filiera, per cui a un sistema di bisogni si cerchi di rispondere sviluppando, insieme, modelli gestionali che, contaminati dalla tecnologia, possano crescere e diventare opportunità di sviluppo territoriale e comunitario. Insomma, “è più facile inventare il futuro…” insieme.
Fabio Fraticelli, direttore operativo TechSoup